«La provocazione di Andrea Tomat non mi coglie di sorpresa. E sa cosa rispondo? Bene, ci sto: vediamo le carte». Franca Porto sa come spiazzare l’interlocutore, trent’anni di trattative sindacali evidentemente hanno un loro peso. Ma la segretaria della Cisl veneta non si limita alla battuta, e di fronte al futuro presidente regionale di Confindustria che contro la crisi propone di lavorare di più e destinare il sacrificio al risanamento definitivo dei conti del Paese, raccoglie la sfida e argomenta il "rilancio".
«In queste ultime settimane le persone più accorte si sono già poste il problema che di fronte alla crisi non è sufficiente giocare in difesa, e nell’ultimo mese molti hanno parlato di coesione sociale per recuperare lo spirito che ha accompagnato negli anni scorsi la crescita del Veneto. Anche l’accordo siglato con la Regione prima di Natale è concentrato sugli ammortizzatori sociali, ma contiene una premessa che parla proprio dell’impegno a aprire un tavolo per condividere un nuovo progetto di sviluppo. La parola chiave è "condividere": se Tomat la fa sua, nessun discorso è precluso». Nemmeno l’ipotesi di "lavorare di più"? «Entriamo nel merito della questione: innanzitutto è opportuno non banalizzare l’importanza della "settimana corta", perché è una soluzione che nasce proprio dallo spirito di condivisione di cui ho parlato. È un’operazione che può limitare i licenziamenti, e attraverso una scelta di sacrificio condiviso da parte di tutti mantenere al lavoro il più alto numero possibile di persone, perché crediamo che la ripresa ci sarà».
Ma la "settimana corta" non è in controtendenza rispetto al "lavorare di più"?
«Fa parte di uno stesso modo di ragionare. Lavorare di più è importante per sostenere una dinamica virtuosa, ma deve essere un lavoro produttivo e non fine a se stesso. In Veneto la questione del recupero di produttività è aperta da 10 anni: lavorare di più serve a poco o è addirittura controproducente se non dà crescita. Anch’io colgo lo “spirito etico” con il quale Tomat ha lanciato la sua provocazione, e dico che potrebbe essere una scommessa vincente: ma a determinate condizioni». Quali?
«Che si realizzi attraverso un patto sociale che faccia sentire tutti partecipi, e che renda trasparente la finalità di questo impegno. Che sia chiaro e definito il fatto che noi veneti facciamo tutto ciò perché serve a un determinato risultato, perché abbiamo un forte senso civico, perché sappiamo che uno Stato sano è conveniente per tutti e garantirebbe una maggiore copertura sociale, perché incentivando un recupero di produttività si potrebbe affrontare la questione delle retribuzioni troppo basse e delle aziende che faticano a innovare. Ecco, se serve ad aprire questi discorsi, allora è una provocazione interessante».
Ma vale solo per il Nordest?
«Non solo. È coerente con il lavoro fatto a livello nazionale per definire le linee guida dei nuovi contratti, che affidano un grande spazio al secondo livello di contrattazione. Se in passato il "miracolo veneto" è stato un processo quasi naturale, forse Tomat ha indicato la leva che può consentirci di costruire una nuova fase di sviluppo con elementi di valore etico purché aperta e vissuta da tutti». Richiede però una fiducia nello Stato che sembra essersi esaurita. Si può anche essere disposti a sacrifici, ma dov’è la garanzia che servono davvero e non finiranno in sprechi e privilegi?
«Proprio in questo voglio vedere la forza della provocazione di Tomat. Se si decide di non piangersi addosso e di essere protagonisti, allora si crede in se stessi e nella possibilità di fare qualcosa. Ciò che è mancato in passato nel "miracolo veneto" era l’idea di comunità che si trasferiva nelle istituzioni, l’idea "kennediana" per la quale ogni singolo cittadino è "lo Stato". Il forte messaggio di coesione sociale che deriva dalla coscienza che una cosa funziona solo se è condivisa, porta tutti ad assumere su di sè la responsabilità civica, senza la quale il Paese non esce dalla crisi».
E come si traduce?
«Significa pagare le tasse, riconoscere che in determinati momenti ci sono priorità collettive, essere consapevoli che il debito pubblico è di tutti, che i politici devono essere scelti tra i migliori. Significa che non è sufficiente pensare agli affari propri, ognuno per sè e Dio per tutti». Ragionamenti validi e condivisibili. Ma come spiegarli a chi ha lavorato duro fino a ieri e ora rischia magari di perdere il posto?
«Perciò dico che il concetto sul quale riflettere non è solo quello del semplice "lavorare un’ora gratis per il Paese": il concetto fondamentale è la contrattazione. Condividere cosa ci mette ciascun soggetto e cosa ci guadagna. Non è che si trovano in una stanza i Tomat, i Galan, magari anche l’opposizione e i sindacati, e si fa semplicemente un accordo. Non funzionerebbe, e i primi a non rispettarlo sarebbero le centinaia di piccolissimi imprenditori che non credono che lo Stato possa essere "amico"».
E come potrebbe invece funzionare?
«Bisognerebbe che tutti gli attori del sistema dicessero cosa ciascuno di loro mette a disposizione. Poi si deve incentivare, azienda per azienda e territorio per territorio, una traduzione di queste disponibilità attraverso la contrattazione aziendale e territoriale. Parlando con le assemblee dei lavoratori ma anche con i singoli piccoli imprenditori e gli amministratori politici dei piccolissimi comuni. La politica deve diventare promotrice di una fase di condivisione. Ma questo presuppone che per almeno un anno tutti noi ci comportiamo sia con le parole che nei fatti in modo diverso. Senza conflittualità e insulti, alla ricerca del bene comune, con trasparenza».
E oggi ci sono le condizioni per cambiare sistema così radicalmente?
«Penso che abbiamo ancora tutte le risorse materiali che servono alla ripresa, e anche molte immateriali: ciò che finora è mancato è stata una visione condivisa delle cose da fare. Voglio e devo credere che sia possibile cambiare sistema».
E pensa che i lavoratori siano ancora disposti a un atto di fiducia?
«I lavoratori hanno sempre capito prima di altri quando i sacrifici non erano strumentali ma servivano per il bene del Paese. Nessuno li ha mai fatti con gioia, certo: ma quando il Paese ha chiamato, i lavoratori hanno sempre risposto a differenza di altri perché sanno di essere la parte sociale più a rischio. E anche adesso la risposta non mancherebbe, a patto però che la chiamata non sia un semplice appello enfatico o populista. Se lavoriamo nel senso che ho descritto prima, io ci sto: la Cisl c’è. Faremmo qualcosa di utile per l’intero Paese. Se invece è una generica chiamata al sacrificio, lascia il tempo che trova. Ma voglio sperare che non sia così».
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