“Vogliamo e dobbiamo cambiare, dunque. Perché sappiamo bene che il sistema del welfare italiano, così com'è, non funziona più. Non funziona in primo luogo perché non è giusto, non si occupa dei deboli, non fornisce gli strumenti per ridurre gli squilibri e le iniquità presenti nella nostra società.” (Enrico Letta, all'incontro «Persona, famiglia, comunità» del 27 novembre 2008, verso la Conferenza Nazionale sul Welfare del Pd)
I mali del sistema sono quelli che ci distinguono in negativo dagli altri Paesi europei e che rischiano di vederci uscire dalla crisi non solo più sfibrati degli altri, ma con un sistema ancora più ingiusto. O modifichiamo alcuni aspetti strutturali del nostro welfare, oppure la crisi aumenterà divario sociale, dipendenza dalle rendite, rigidità e mobilità sociale ancora più bassa.
Rispetto ad altri Paesi Europei in Italia erano già presenti alcune criticità ancora prima della crisi: Minore crescita Minore reddito pro capite Retribuzioni più basse Un sistema retributivo a progressione costante che non dà, come negli altri Paesi più retribuzione nella fase in cui maggiore è il carico ed il bisogno (30-50 anni) quando spesso le famiglie hanno contemporaneamente il “peso” di bambini e genitori.
Come ha ricordato Enrico Letta: “Il sistema italiano del welfare non funziona perché è profondamente squilibrato, schiacciato su due sole voci di spesa, le pensioni e la sanità, che letteralmente divorano le risorse per le politiche sociali, per l'assistenza dei non autosufficienti, per il miglioramento dei servizi di cura. Anche in questo caso le cifre parlano chiaro. Pensioni e sanità occupano insieme oltre l'87% del totale della spesa sociale. Non succede in nessun altro Paese del mondo. Alle restanti voci di spesa va molto poco. O meglio briciole: 4,4% alle politiche per la famiglia, solo il 2% per quelle contro la disoccupazione e addirittura lo 0,3% - percentuale più bassa dell'intera Europa a Ventisette - per le politiche abitative e contro l'esclusione sociale.”
Il nostro è un Welfare che: non riesce a destinare le proprie risorse a chi ne avrebbe più bisogno non protegge (o protegge molto molto meno dei Paesi vicini) dal rischio povertà non aiuta i giovani
Alcuni aspetti di questo squilibrio sono più accentuati in Veneto ma nonostante la crisi economica in atto, il Governo regionale non ha voluto cambiare l’impostazione di una finanziaria elaborata in un periodo precedente alla crisi. Non è infatti stata programmata alcuna manovra davvero capace di mobilitare risorse eccezionali per una situazione eccezionale. Al contrario, la proposta della Giunta prevedeva una serie di tagli pesanti in numerosi capitoli della spesa sociale, senza alcun disegno di riorganizzazione della spesa che la nostra manovra emendativa ha in parte attutito. Per il secondo anno consecutivo nell’attuare il Patto di Stabilità, la Regione Veneto continua a mettere all’ultimo posto le risorse destinate al settore sociale, senza considerare nemmeno l’ipotesi di operare secondo un criterio di rotazione. Questa scelta irresponsabile mette quindi in ginocchio tutta la capillare rete di servizi educativi e sociali gestiti dalle risorse della comunità (servizi all’infanzia, all’handicap, vecchiaia attiva, ecc…)
Ma anche a prescindere dalla carenza di risorse, è drammatica l’assenza di ogni progetto di riorganiozzazione della spesa sociale, che rimane Accentrata e Frammentata. Accentrata: La Regione sceglie di svolgere funzioni di erogatore diretto (erogando quindi direttamente gli assegni alle famiglie). E intanto gli enti locali più vicini al cittadino vengono abbandonati a loro stessi, costretti a ridimensionare i servizi. Frammentata: mille fondi, bandi per gli stessi settori e totale deresponsabiolizzazione della programmazione territoriale. Con questa logica dell'una tantum o della dispersione dei fondi in mille rivoli non si va da nessuna parte. Questo modo di agire è la negazione di una corretta politica sociale che dovrebbe basarsi su un'organizzazione dei servizi stabile e continuativamente finanziata, radicata nel territorio e in grado di rispondere in maniera efficace alle sue esigenze. Centralismo e deresponsabilizzazione degli enti locali, contributi direttamente erogati dalla regione, nessuna programmazione, svilimento Conferenze dei Sindaci e della Conferenza Permanente per la programmazione Sanitaria e Sociosanitaria. Questa è la politica sociale della Regione Veneto.
Noi pensiamo invece che: I Comuni sono gli attori delle nuove politiche sociali: nei Comuni si aiutano le famiglie in difficoltà, si offrono i servizi all’infanzia, si promuove la vecchiaia attiva, si incentiva la domicliliarietà, si fa politica della casa, si fa la vera lotta alla povertà e alla povertà estrema (altro che le social card!), si fa l’integrazione degli stranieri. I Comuni sono i soggetti capaci di fare innovazione. Il nuovo welfare, quello che non è solo pensioni e sanità, quello che serve a portarci più vicini al resto dell’Europa, nasce nei Comuni. Associati, capaci di fare la programmazione territoriale, dotati delle risorse necessarie. Questo è il nostro progetto!
Fondo Unico per la non autosufficienza E’ anche per questo che nella lunga battaglia per il Fondo Unico per la non autosufficienza abbiamo insistito e ottenuto che il fondo sia gestito dalle conferenze dei sindaci delle ULS e non da un soggetto terzo regionale (un nuovo ente pagatore tipo Avepa in agricoltura), coerentemente con la battaglia per una nuova governance della sanità perché vogliamo una Regione che sceglie di programmare e non di gestire. In sanità come nel sociale! Il Fondo per la non autosufficienza procede, anche se lentamente, solo per la capacità di mobilitazione delle forze sociali e per il nostro lavoro. Si stima che in Veneto siano 180.000 le persone non autosufficienti di tutte le età; Sono circa 25.000 le impegnative di residenzialità e grossomodo altrettanti gli assegni di cura a domicilio. Meno di un terzo.
Patto di stabilità e sociale, assegni di cura, non autosufficienza Oggi più che mai abbiamo la necessità di rivedere i parametri del patto di stabilità applicando un criterio meritocratico, ossia rovesciando completamente la logica attuale che, basandosi sulla spesa storica, premia i comuni "spendaccioni" e penalizza quelli più "virtuosi". Sul Patto di stabilità urge quindi fare un ulteriore passo avanti, rivedendo completamente, ed in chiave meritocratica, i suoi criteri di applicazione. Nella situazione di crisi economica che stiamo attraversando, la revisione del patto di stabilità è improrogabile. Ricordiamo, infatti, che tale vincolo influisce pesantemente non solo sulla spesa sociale ma anche sui programmi per la realizzazione di infrastrutture ed opere pubbliche e, di conseguenza, sulla redditività delle imprese fornitrici e subfornitrici degli enti locali mettendo quindi in serie difficoltà finanziarie le imprese, già sottoposte a restrizioni del credito.
Nido e infanzia, terzo settore, sussidiarietà Tra asili nido e servizi innovativi sono disponibili 15mila posti su una popolazione di quasi 150mila bambini in età corrisponente. Lisbona chiede che venga raggiunta la copertura di un terzo dei posti entro il 2010. Il fondo “Bindi” per la famiglia avrebbe potuto e dovuto essere una grande occasione di rilancio. Ma quali sono oggi i Comuni che hanno il coraggio di investire in un servizio all’infanzia?
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