La legge delega sul federalismo fiscale è stata approvata dal Parlamento in tempi più veloci del previsto, inaugurando una stagione di collaborazione dialettica fra governo e opposizione che fa ben sperare anche per le tante riforme strutturali - costituzionali od ordinarie - ancora in attesa. D’accordo tutti sulla poesia, ora bisogna affrontare la prosa del provvedimento. Perché la delega è legge sui principi, elaborati sulla scorta dell’articolo 119 della Costituzione. E quando si parla di risorse da dare e da ricevere, sono invece i criteri operativi e i numeri che contano. Quelli li leggeremo sui decreti delegati: il primo, da emanarsi entro un anno, dovrà stabilire come armonizzare i bilanci pubblici (e già questo bisogno di rendere i bilanci confrontabili, ancora insoddisfatto nel 2009, rivela quanto c’è da fare); gli altri, entro due anni, dovranno stabilire le fonti di entrata, i costi e i fabbisogni standard e la perequazione a favore degli enti territoriali con una capacità fiscale inferiore al fabbisogno. Quali prospettive? Sul lato degli standard, è tutto da decidere, anche se l’esperienza della sanità può offrire validi riferimenti pure per istruzione e assistenza. Sulla capacità fiscale, il punto di partenza è dato dal gettito pro capite dei tributi esistenti, in gran parte gestiti dallo Stato: riferimento senz’altro valido se l’evasione fosse uniforme. Si sa che così non è, perciò è da prevedere qualche controversia su questo fronte tra Nord e Sud, immaginando che il primo sia disposto a dare una mano al secondo per la minore ricchezza ma non per la maggiore evasione. Sulle fonti di entrata, infine, vari nodi, ma due particolarmente difficili da sciogliere. Quello dell’Irap delle Regioni, che dovrà essere abolita (ed è un errore, perché ha un buon fondamento logico, purtroppo non compreso), creando un vuoto di gettito che non si sa come colmare. E quello dell’Ici sulla prima casa, che è stata abolita e che si pensa di rimpiazzare con una cedolare secca sugli affitti, da togliere dalla dichiarazione Irpef, e da una compartecipazione all’Iva. A parte i problemi tecnici ancora da esplorare, ben diverso è il ruolo di un’imposta locale pagata dalla quasi totalità delle famiglie e altra cosa è un’imposta pagata solo dai locatori o, peggio, una compartecipazione a un’imposta erariale. Ci può essere equivalenza contabile, non certo equivalenza politica. Il vero federalismo presuppone infatti che tutti o quasi tutti i cittadini sentano insieme i benefici e i costi delle spese decise dal Comune. Se tutti hanno i benefici e pochi pagano le imposte, ci sarà una spinta all’aumento della spesa difficilmente contenibile. Il federalismo nascerebbe con una insanabile contraddizione logica, una specie di esiziale difetto genetico. In parte può aiutare a risanare le fondamenta della finanza federalista il ricorso alla «imposta di scopo» che la delega prevede in termini più larghi di quelli della norma vigente introdotta dal governo Prodi. Ma per ora anche questa imposta è un animale sconosciuto, in attesa di chiarimenti attraverso i decreti delegati. Meno importanti ma molto più chiari sono i provvedimenti che il ministro Calderoli sta elaborando sul fronte parallelo delle autonomie locali: via le Comunità montane, via i Comuni dagli enti degli «ambiti territoriali ottimali» che si occupano di servizi idrici, ruolo rafforzato delle Province eliminando però quelle minori, eccetera. Ne parleremo a parte. Ma intanto va sottolineato con favore la volontà di procedere parallelamente sui due fronti, quello delle competenze istituzionali degli enti locali e quello del finanziamento di tali enti. Almeno così si rispetta la logica e si immette subito una sana dose di concretezza nei discorsi, sin qui necessariamente generici, sul federalismo fiscale. E ora, buon lavoro. |