L’idea delle gabbie salariali Nord-Sud, ossia di salari nominali diversi tra le due aree a parità di mansione, è presente da decenni nel dibattito italiano. Essa conosce oggi un revival in seguito ai dati recenti sul minor costo della vita al Sud, una differenza di circa il 17% grazie soprattutto al diverso prezzo della casa. Ciò rafforza una tesi che è stata sostenuta in passato considerando soltanto i “fondamentali” dell’economia di mercato: se al Sud c’è minore produttività del lavoro e maggiore disoccupazione rispetto al Nord, è bene che vi sia anche un minor salario. Ciò farebbe aumentare le assunzioni al Sud, che potrebbe così crescere più velocemente e ridurre il gap di occupazione, salario e ricchezza rispetto al Nord: come è avvenuto e sta avvenendo in tutto il mondo tra aree a diverso sviluppo economico e come in particolare insegna la storia dell’Italia rispetto all’Europa occidentale nei primi decenni del dopoguerra. Se ora il Sud presenta un reddito pro capite di quasi il 40% inferiore a quello del Nord, affermano i sostenitori delle gabbie, è perché il mercato si vendica dell’obbligo di pari salario nominale attraverso minore occupazione al Sud. I contrari a questa tesi avanzano intuitive ragioni di equità ma anche ragioni economiche: il Sud è bloccato da altri fattori, quali sicurezza, infrastrutture e formazione; perciò una diminuzione dei salari espanderebbe ben poco l’occupazione, con ulteriore impoverimento del Sud. Il paradosso di tale antico e nuovo dibattito è che sembra ignorare la realtà. Nel mercato del lavoro privato, infatti, i compensi sono già diversi. E non ci riferisce solo al lavoro autonomo e ai dirigenti, dove non esistono prezzi del lavoro ufficiali e uniformi, ma anche alla generalità del lavoro privato dipendente che è trattato peggio al Sud: o attraverso la diffusa pratica criminale di mettere in busta paga un importo diverso da quello indicato o attraverso il ricorso a qualifiche formalmente inferiori a quelle reali (ne è un indizio la prevalenza al Sud di mansioni minori nelle statistiche ufficiali). A fronte di questa realtà, la proposta delle gabbie servirebbe dunque ad aumentare la pulizia dei rapporti di lavoro più che l’occupazione. Ma anche così ridimensionata, sarebbe una buona tesi. Il problema è che rischia di essere una di quelle buone intenzioni di cui è lastricata la via dell’inferno. Come definire le aree, sapendo che, anche se si parla sbrigativamente di Nord e Sud, in realtà il Mezzogiorno è fatto di realtà diverse? E quale differenziale stabilire? E come farlo evolvere nel tempo? Siamo francamente spaventati dell’idea di interventi normativi. L’unica soluzione ragionevole sta nel proseguire sulla strada di un contratto nazionale limitato al salario base e di un maggiore spazio alla contrattazione a livello di territorio e di impresa. In tal modo il confronto tra le parti sociali nelle diverse realtà territoriali farà emergere le necessaria flessibilità, senza scontri a livello nazionale e senza ingessature nel tempo. Ben diversa la questione nel settore pubblico al Sud, che rispetto al Nord presenta un impiego pletorico, con ben minore produttività media e con salari nominali identici e quindi salari reali maggiori dato il minor costo della vita. Creare per i dipendenti pubblici un esplicito differenziale stipendiale legato al diverso costo della vita, sembra quindi il minimo da farsi. Lo raccomandiamo; ma senza ignorare che il discorso non può essere affrontato a se stante ma solo nell’ambito di una strategia tesa a realizzare il federalismo fiscale: con elevati costi transitori che precederanno i benefici sperati.
di Gilberto Muraro su La Tribuna di Treviso del 07 agosto 2009 |